domenica 4 novembre 2007

Introduzione (da "Raggi di luce" - poesie)

Ho trascorso ore e ore nelle librerie di tutta Italia alla ricerca degli spiriti gemelli; con fatica mi avvicinavo allo stile dei poeti dell’Ottocento; ma in generale a tutta la poesia non essendone abituato e ritenendola, mio malgrado, un genere letterario superato e poco comunicativo.
Fin dall’inizio, mi dicevo che stavo intraprendendo un cammino solitario dove gli interlocutori, probabilmente, sarebbero stati i libri che leggevo e i pochi lettori amici a cui, per affetto, avrei sottoposto le composizioni.
Alla fine, dopo aver sfogliato centinaia di volumi ed aver letto poesie di autori che non conoscevo, non avendoli studiati a scuola – essendo essa, per quanto riguarda la poesia, quasi sempre l’unica struttura che ci fa avvicinare a questo genere – individuai quelli che chiamo i miei maestri: nell’ordine cronologico di analisi e lettura: Arthur Rimbaud ed Emily Dickinson.

Conobbi A. Rimbaud grazie al film Poeti dall’inferno di Agniezska Holland, che mi avvicinò ai due poeti amanti e ribelli di cui avevo solo sentito la fama da incalliti perversi; tale era la considerazione che una cultura perbenista mi aveva costruito di loro.
Stupito dai concetti espressi dal film, comprai un libro che conteneva tutte le poche opere di quell’incredibile adolescente; e solo ora sono in grado di contare i pianti d’invidia ammirata sul Battello ebbro e sull’ultima parte intitolata Addio di Una stagione all’inferno.
Cosa mi ha insegnato Arthur?
Sicuramente che in poesia bisogna dire qualsiasi cosa senza timore, preconcetti o celandosi dietro a frasi ben dette ma vigliacche e vuote. Che bisogna vivere intensamente la vita, curandola come fosse l’unico lavoro che conta, di fatti esemplari per la crescita. Che la poesia è insieme di immagini costruite con il sapiente uso della parola, delle figure retoriche e di alchimie (usando un suo vocabolo caro) linguistiche a cui nessuno mai aveva pensato, tali da risultare coinvolgenti, commoventi. Che bisogna sconvolgere i sensi commossi dal dolore del mal di vivere accompagnandoli nel costante esercizio della riflessione della coscienza attraverso i ricordi.


Andai avanti e leggendo avvalendomi di un gusto che via via si era fatto più attento, incappai in quell’anima stranissima e universale di E. Dickinson.
I suoi epigrammi mai retorici o noiosi sempre ispirati, essenziali, evocativi, disarmanti, metaforici e infine avvalendosi di similitudini semplici tratte dalla quotidianità e costruite sempre sugli stessi elementi con mille variazioni sul tema; costituivano un corpus di migliaia di componimenti che trattavano gli argomenti più disparati con particolare attenzione alla domanda intima sul senso della vita e sulla speranza dopo la morte.
Senza dire molto, imparai la mia seconda lezione: la brevità come sintesi di contenuto-forma; l’uso delle metafore visive per esprimere un solo concetto universale; la ricerca della parola semplice per essere comunicativo, sensitiva e affascinante; la poesia come interrogazione e messaggio intimo d’amore verso chi si ama; la poesia come ricerca di nuove forme da condividere con il lettore alla ricerca dell’evoluzione dello spirito, nuova a ogni lettura.

L’Autore

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